La Suprema Corte, rivedendo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ha affermato il seguente principio di diritto:
Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, va escluso che abbia rilevanza preclusiva l’errore della parte la quale abbia fatto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata, al tempo della proposizione dell’impugnazione, giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, e che la sua iniziativa possa essere dichiarata inammissibile o improcedibile in base a forme e termini il cui rispetto, non richiesto al momento del deposito dell’atto di impugnazione, discenda dall’overrullng; il mezzo tecnico per ovviare all’errore oggettivamente scusabile è dato dal rimedio della rimessione in termini, previsto dall’art. 184 bis c.p.c., (ratione temporis applicabile), alla cui applicazione non osta la mancanza dell’istanza di parte, dato che, nella specie, la causa non imputabile è conosciuta dalla corte di cassazione, che con la sua stessa giurisprudenza ha dato indicazioni sul rito da seguire, ex post rivelatesi non più attendibili.
Corte di Cassazione Sez. Seconda Civ.
Ordinanza del 02.07.2010, n. 15811
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che R.G. ha proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza in data 13 maggio 2009 del Tribunale di Cosenza, 2^ sezione penale, con cui è stata dichiarata inammissibile l’opposizione dal medesimo proposta, ai sensi del DPR_215_2002, art. 170, (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), avverso il decreto di liquidazione di un acconto sul compenso ad esso riconosciuto quale amministratore giudiziario di un compendio immobiliare sequestrato nell’ambito di un procedimento di prevenzione;
che il ricorso per cassazione è stato depositato nella cancelleria del giudice a quo il 27 maggio 2009;
che il ricorso è affidato ad un motivo, il quale – privo del conclusivo quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., (ratione temporis applicabile) – denuncia violazione di legge.
Considerato che l’orientamento largamente prevalente della giurisprudenza di questa Corte al momento della introduzione del presente ricorso per cassazione – formatosi sia nel vigore della L. 3 luglio 1980, n. 319, art. 11, (Compensi spettanti ai periti, ai consulenti tecnici, interpreti e traduttori per le operazioni eseguite a richiesta dell’autorità giudiziaria) e della L. 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), che dopo l’entrata in vigore del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – era basato sulla natura secondaria e collaterale del procedimento di opposizione rispetto a quello principale nel quale è emesso il provvedimento di liquidazione, con la conseguenza che, se la liquidazione era effettuata dal pubblico ministero o dal giudice penale, l’opposizione doveva essere trattata in sede penale ed il ricorso per cassazione proposto nelle forme e secondo i termini del rito penale, mentre se la liquidazione era fatta dal giudice civile l’opposizione doveva essere proposta in sede civile e decisa con provvedimento suscettibile di ricorso per cassazione da proporre in base alle regole procedurali proprie del rito civile (Cass., sez. un. pen., 26 maggio 1989 – 11 luglio 1989, Medea; Cass., sez. un. pen., 24 novembre 1999 – 6 dicembre 1999, Di Dona; Cass., sez. un. civ., 14 giugno 2000, n. 434; Cass., sez. 2^ civ., 25 maggio 2001, n. 7136; Cass., Sez. 2^ civ., 26 novembre 2001, n. 14934; Cass., Sez. 1^ civ., 15 novembre 2003, n. 15377; Cass., Sez. 3^ civ., 28 febbraio 2008, n. 5301; Cass., sez. 4^ pen., 17 febbraio 2009 – 7 aprile 2009, Caminiti);
che, successivamente alla proposizione della presente impugnazione, le Sezioni unite civili di questa Corte (sentenza 3 settembre 2009, n. 19161), chiamate a risolvere un contrasto di giurisprudenza in ordine alla qualificazione del vizio derivante dal mancato rispetto della sede civile della decisione dell’opposizione, hanno stabilito che qualora l’ordinanza che decide l’opposizione sia stata adottata da un giudice addetto al servizio penale, si configura una violazione delle regole di composizione dei collegi e di assegnazione degli affari, che non determina né una questione di competenza né una nullità, ma può giustificare esclusivamente conseguenze di natura amministrativa o disciplinare; ed hanno inoltre affermato, innovando il precedente orientamento, che (a) spetta sempre al giudice civile la competenza a decidere sulle opposizioni nei confronti dei provvedimenti di liquidazione dell’onorario del difensore del soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato (o di persone ammesse al programma di protezione), dei compensi agli ausiliari dei giudici e delle indennità ai custodi, anche quando emessi nel corso di un procedimento penale, e che (b) l’eventuale ricorso per cassazione avverso il provvedimento che decide sull’opposizione va proposto, nel rispetto dei termini e delle forme del codice di rito civile, dinanzi alle sezioni civili della Corte;
che l’applicazione del nuovo indirizzo giurisprudenziale impone di effettuare il controllo di ammissibilità e di procedibilità dell’impugnazione secondo le regole del ricorso per cassazione in sede civile, laddove il presente ricorso, con cui viene impugnata una ordinanza resa in sede di opposizione da un giudice penale, è stato proposto in base alle regole procedurali proprie del rito penale, in conformità dell’orientamento allora dominante nella giurisprudenza di questa Corte;
che, visto dalla parte di chi ha già fatto ricorso al giudice di cassazione, l’overruling si risolve in un cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata e in una somministrazione all’arbitro del potere-dovere di giudicare dell’atto introduttivo in base a forme e termini il cui rispetto non era richiesto al momento della proposizione dell’atto di impugnazione;
che allorchè si assista, come nella specie, ad un mutamento, ad opera della Corte di cassazione, di un’interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo, la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa;
che in questa direzione orienta il principio costituzionale del “giusto processo”, la cui portata non si esaurisce in una mera sommatoria delle garanzie strutturali formalmente enumerate nell’art. 111 Cost., comma 2, (contraddittorio, parità delle parti, giudice terzo ed imparziale, durata ragionevole di ogni processo), ma rappresenta una sintesi qualitativa di esse (nel loro coordinamento reciproco e nel collegamento con le garanzie del diritto di azione e di difesa), la quale risente dell’”effetto espansivo” dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo (cfr. Corte cost., sentenza n. 317 del 2009, punto 8 del Considerato in diritto);
che il Collegio ritiene contrario alla garanzia di effettività dei mezzi di azione o di difesa e delle forme di tutela – la quale è componente del principio del giusto processo – che rimanga priva della possibilità di accedere alla corte di cassazione e di vedere celebrato un giudizio che conduca ad una decisione sul merito delle questioni di diritto veicolate dall’impugnazione, la parte che quella tutela abbia perseguito con un’iniziativa processuale conforme alla legge del tempo – nel reale significato da questa assunto nella dinamica operativa per effetto dell’attività “concretizzatrice” della giurisprudenza di legittimità -, ma divenuta inidonea per effetto del mutamento di indirizzo giurisprudenziale;
che il mezzo tecnico per dare protezione alle aspettative della parte che abbia confezionato il ricorso per cassazione confidando sulle regole processuali suggerite da un costante orientamento giurisprudenziale, poi superato da un revlrement, è rappresentato dall’istituto della rimessione in termini;
che viene in rilievo l’art. 184 bis c.p.c., introdotto con la L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 19, e successivamente modificato dal D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, art. 6, convertito dalla L. 20 dicembre 1995, n. 534;
che l’art. 184 bis c.p.c., è la disposizione ratione temporis applicabile : esso è stato bensì abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 3, (ed al suo posto è stato aggiunto, dall’art. 45, comma 19, della medesima legge, un ulteriore comma all’art. 153 c.p.c.), ma l’abrogazione ha effetto per i soli giudizi instaurati dopo la data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, (art. 58, comma 1), mentre nella specie la litispendenza è anteriore al 4 luglio 2009;
che il Collegio non condivide l’orientamento secondo cui l’art. 184 bis c.p.c., per sua collocazione sotto la rubrica della “trattazione della causa” e per il riferimento al “giudice istruttore”, non sarebbe invocabile per le “situazioni esterne” allo svolgimento del giudizio, quali sono le attività necessarie all’introduzione di quello di cassazione ed alla sua prosecuzione (tra le tante, Cass., Sez. 5^, 8 maggio 2000, n. 5778; Cass., Sez. 2^, 11 luglio 2000, n. 9178; Cass., Sez. 3^, 14 marzo 2006, n. 5474; Cass., Sez. 1^, 7 febbraio 2008, n. 2946);
che detto indirizzo – benché tralaticiamente ribadito, anche di recente, in alcune pronunce di questa Corte (v., ad esempio, Cass., Sez. lav., 23 febbraio 2010, n. 4356) – non è in linea con le aperture presenti nella giurisprudenza delle Sezioni Unite (14 gennaio 2008, n. 627; 4 febbraio 2008, n. 2520), la quale, raccogliendo gli auspici della dottrina, ha messo in luce come la lettura restrittiva non tiene conto né delle innovazioni apportate all’art. 184 bis c.p.c., dalla novella del 1995 “con la soppressione del riferimento alle sole decadenze previste negli artt. 183 e 184 c.p.c.”, né delle “esigenze di certezza ed effettività delle garanzie difensive nel processo civile”, nè del “difetto di situazioni di incompatibilità tra la norma in questione e le peculiarità del giudizio di cassazione”, ed è pervenuta alla conclusione secondo cui “la regola della improrogabilità dei termini perentori posta dall’art. 153 c.p.c., non può costituire ostacolo al ripristino del contraddittorio quante volte la parte si vedrebbe dichiarare decaduta dall’impugnazione, pur avendo ritualmente e tempestivamente esercitato il relativo potere, per un fatto incolpevole che si collochi del tutto al di fuori della sua sfera di controllo e che avrebbe, altrimenti, un effetto lesivo del suo diritto di difesa”;
che in direzione del riconoscimento della rimessione in termini in relazione al potere di impugnare la giurisprudenza delle Sezioni Unite si era già orientata con l’ordinanza 21 gennaio 2005, n. 1233, la quale – nello statuire che qualora la notificazione del ricorso per cassazione diretta ad integrare il contraddittorio ex art. 331 c.p.c., non si sia perfezionata per la morte del destinatario, di cui la parte venga informata soltanto attraverso la relazione di notifica, si deve assegnare un ulteriore termine perentorio per rinnovare la notificazione – ha affermato (sulla scia della sentenza n. 477 del 2002 della Corte costituzionale) che un effetto di decadenza non può discendere da un fatto estraneo alla sfera di disponibilità della parte, così inaugurando una linea che valorizza la tecnica di assumere i precetti costituzionali quali “fonte diretta di regolamentazione dei rapporti giuridici” (Sez. Un., 28 luglio 2005, n. 15783) al fine di non addebitare alla parte incolpevole le conseguenze di atti e circostanze del procedimento che siano di ostacolo all’esercizio di poteri processuali esterni;
che – assodato che la rimessione in termini è riferibile anche al potere di impugnare per cassazione e che questa estensione, oltre ad essere coerente con la portata dell’art. 184 bis (che è quella di rappresentare una valvola di sicurezza rivolta a porre rimedio a tutte le ipotesi in cui sia intervenuta una decadenza a causa di un impedimento non imputabile), rinviene la propria ragione giustificatrice nell’impegno costituzionale di garantire l’effettività del contraddittorio e dei mezzi di azione e di difesa nel processo – si tratta di stabilire se è di ostacolo alla applicazione, nella specie, del rimedio restitutorio la circostanza che la parte ricorrente (non presente all’udienza di discussione e notiziata della sua celebrazione con avviso notificato in cancelleria) non abbia avanzato una apposita istanza in tal senso;
che il Collegio ritiene che al quesito debba darsi risposta negativa;
che nell’art. 184 bis c.p.c., la necessità di una apposita istanza di parte indirizzata al giudice è strettamente legata all’onere della parte interessata di allegare, con essa, i fatti che hanno determinato la decadenza e di offrire la prova della loro non imputabilità: l’istanza di rimessione, in altri termini, si giustifica con la necessità che la parte profili i fatti che integrano il presupposto della causa non imputabile, dimostrando che la decadenza è dipesa da un impedimento non evitabile con il grado di diligenza a cui essa, il suo rappresentante processuale o il suo difensore sono rispettivamente tenuti;
che la vicenda all’esame del Collegio presenta alcune particolarità: (a) la parte ha compiuto, entro il termine di decadenza (stabilito dal codice di procedura penale), un’attività processuale la quale, pur se carente rispetto allo schema legale previsto dal codice di rito civile, manifesta la non acquiescenza al provvedimento impugnato; (b) la causa non imputabile si riconnette, non ad uno stato di materiale impedimento rientrante nell’onere di allegazione e di dimostrazione ad opera della parte interessata, ma alla scelta difensiva dipendente da indicazioni sul rito da seguire provenienti dalla consolidata giurisprudenza del tempo del promosso ricorso, solo ex post rivelatesi non più attendibili;
che, in una situazione siffatta, nella quale l’affidamento creato dalla giurisprudenza costituisce chiara ed evidente spiegazione e giustificazione della condotta processuale della parte, la causa non imputabile è determinata e, al contempo, conosciuta dallo stesso arbitro; sicché l’art. 184 bis c.p.c., viene in considerazione, non già come regola di dettaglio pensata per le inattività derivanti dagli impedimenti, tipici, di natura materiale ed oggettiva, ma nella sua portata di precipitato normativo espressione di un principio generale di superiore giustizia – coessenziale alla garanzia costituzionale dell’effettività della tutela processuale – che vede nel rimedio resti tu torio il mezzo rivolto a non far sopportare alla parte, quando ad essa non possa farsi risalire alcuna colpa, le gravi conseguenze di un errore nella proposizione dell’impugnazione indotto dalla stessa giurisprudenza di cassazione;
che, del resto, significativa in questa direzione è l’esperienza dell’errore scusabile nel processo amministrativo (R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 36; L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 34), nella quale la giurisprudenza del Consiglio di stato (Ad. plen., 19 aprile 1996, n. 2; Sez. 6^, 20 gennaio 2000, n. 257; Sez. 4^, 29 luglio 2003, n. 4352; Sez. 5^, 28 maggio 2004, n. 3451) esclude che l’assenza della domanda della parte interessata sia di ostacolo alla concessione del rimedio;
che, conclusivamente, deve essere affermato il seguente principio di diritto: “Alla luce del principio costituzionale del giusto processo, va escluso che abbia rilevanza preclusiva l’errore della parte la quale abbia fatto ricorso per cassazione facendo affidamento su una consolidata, al tempo della proposizione dell’impugnazione, giurisprudenza di legittimità sulle norme regolatrici del processo, successivamente travolta da un mutamento di orientamento interpretativo, e che la sua iniziativa possa essere dichiarata inammissibile o improcedibile in base a forme e termini il cui rispetto, non richiesto al momento del deposito dell’atto di impugnazione, discenda dall’overrullng; il mezzo tecnico per ovviare all’errore oggettivamente scusabile è dato dal rimedio della rimessione in termini, previsto dall’art. 184 bis c.p.c., (ratione temporis applicabile), alla cui applicazione non osta la mancanza dell’istanza di parte, dato che, nella specie, la causa non imputabile è conosciuta dalla corte di cassazione, che con la sua stessa giurisprudenza ha dato indicazioni sul rito da seguire, ex post rivelatesi non più attendibili”;
che, pertanto, in applicazione dell’enunciato principio, la parte va, d’ufficio, rimessa in termini, secondo quanto specificato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte assegna, alla parte ricorrente:
(a) il termine perentorio di giorni sessanta dalla comunicazione della presente ordinanza per proporre e notificare ricorso per cassazione secondo le forme del codice di procedura civile;
(b) il termine perentorio di giorni venti dalla notificazione per il deposito del ricorso nella cancelleria della Corte.
Depositata in Cancelleria il 02.07.2010
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