Risolvendo una questione interpretativa sollevata dalla Corte di Cassazione, la Corte di Giustizia ha confermato che contrasta con il diritto comunitario il rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un’università del primo Stato.
Corte di Giustizia delle Comunità Europee – Quinta Sezione
Sentenza 13 novembre 2003
Libertà di stabilimento – Iscrizione nel registro dei praticanti avvocati – Riconoscimento dei diplomi – Accesso alle attività regolamentate
http://europa.eu.int/eur-lex/it/search/search_case.html
Nel procedimento C-313/01,
avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dalla Corte suprema di cassazione nella causa dinanzi ad essa pendente tra
Christine Morgenbesser
e
Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Genova,
domanda vertente sull’interpretazione degli artt. 10 CE, 12 CE, 14 CE, 39 CE, 43 CE e 149 CE,
LA CORTE (Quinta Sezione),
composta dal sig. D.A.O. Edward (relatore), facente funzione di presidente di sezione, dai sigg. A. La Pergola e S. von Bahr, giudici,
avvocato generale: sig.ra C. Stix-Hackl
cancelliere: sig.ra L. Hewlett, amministratore principale
viste le osservazioni scritte presentate:
– per la sig.ra Morgenbesser, dall’avv. G. Borneto;
– per il governo italiano, dal sig. I.M. Braguglia, assistito dal sig. G. Fiengo, avvocato dello Stato;
– per il governo danese, dal sig. J. Molde, in qualità di agente;
– per la Commissione delle Comunità europee, dal sig. E. Traversa e dalla sig.ra M. Patakia, in qualità di agenti,
vista la relazione d’udienza,
sentite le osservazioni orali della sig.ra Morgenbesser, rappresentata dall’avv. G. Conte e dall’avv. G. Borneto, del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Genova, rappresentato dall’avv. M. Condinanzi, del governo italiano, rappresentato dal sig. A. Cingolo, avvocato dello Stato, e della Commissione, rappresentata dal sig. E. Traversa, all’udienza del 16 gennaio 2003,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 20 marzo 2003,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
- Con ordinanza 19 aprile 2001, pervenuta alla Corte l’8 agosto seguente, la Corte suprema di cassazione ha sottoposto, ai sensi dell’art. 234 CE, una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione degli artt. 10 CE, 12 CE, 14 CE, 39 CE, 43 CE e 149 CE
- Tale questione è stata sollevata nell’ambito di un ricorso per cassazione presentato dalla sig.ra Morgenbesser contro la decisione del Consiglio Nazionale Forense che ha confermato la decisione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Genova di rifiutare la sua iscrizione nel registro dei praticanti.
Ambito normativo
La normativa comunitaria
- La direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/48/CEE, relativa ad un sistema generale di riconoscimento dei diplomi di istruzione superiore che sanzionano formazioni professionali di una durata minima di tre anni (GU 1989, L 19, pag. 16), si applica, in base all’art. 2, a qualunque cittadino di uno Stato membro che intenda esercitare, come lavoratore autonomo o subordinato, una professione regolamentata in uno Stato membro ospitante.
- L’art. 1 della direttiva 89/48 così recita:
«Ai sensi della presente direttiva si intende:
- a) per diploma, qualsiasi diploma, certificato o altro titolo o qualsiasi insieme di diplomi, certificati o altri titoli;
– che sia stato rilasciato da un’autorità competente in uno Stato membro, designata in conformità delle sue disposizioni legislative, regolamentari o amministrative,
– da cui risulti che il titolare ha seguito con successo un ciclo di studi post-secondari di durata minima di tre anni oppure di durata equivalente a tempo parziale, in un’università o un istituto di istruzione superiore o in un altro istituto dello stesso livello di formazione e, se del caso, che ha seguito con successo la formazione professionale richiesta oltre al ciclo di studi post-secondari e
– dal quale risulti che il titolare possiede le qualifiche professionali richieste per accedere ad una professione regolamentata in detto Stato membro o esercitarla,
quando la formazione sancita dal diploma, certificato o altro titolo, è stata acquisita in misura preponderante nella Comunità (…)
(…)
(…)
- c) per professione regolamentata, l’attività o l’insieme delle attività professionali regolamentate che costituiscono questa professione in uno Stato membro;
- d) per attività professionale regolamentata, un’attività professionale per la quale l’accesso alla medesima o l’esercizio o una delle modalità di esercizio dell’attività in uno Stato membro siano subordinati, direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di un diploma. In particolare, costituiscono modalità di esercizio di un’attività professionale regolamentata:
– l’esercizio di un’attività con l’impiego di un titolo professionale qualora l’uso del titolo sia limitato a chi possieda un dato diploma previsto da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative;
(…)
(…)
- f) per tirocinio di adattamento, l’esercizio di una professione regolamentata svolta nello Stato membro ospitante sotto la responsabilità di un professionista qualificato, accompagnato eventualmente da una formazione complementare. Il tirocinio è oggetto di una valutazione. Le modalità del tirocinio di adattamento e della valutazione nonché lo status del tirocinante migrante sono determinati dall’autorità competente dello Stato membro ospitante;
- g) per prova attitudinale, un esame riguardante esclusivamente le conoscenze professionali del richiedente effettuato dalle autorità competenti dello Stato membro ospitante allo scopo di valutare la capacità del richiedente ad esercitare in tale Stato una professione regolamentata.
Per consentire il controllo, le autorità competenti redigono un elenco delle materie che, attraverso un confronto tra la formazione richiesta nello Stato rispettivo e quella ricevuta dal richiedente, non sono comprese nel diploma o nel/nei titolo/i presentato/i dal richiedente.
La prova attitudinale deve prendere in considerazione il fatto che il richiedente è un professionista qualificato nello Stato membro d’origine o di provenienza. Essa verte su materie da scegliere tra quelle che figurano nell’elenco e la cui conoscenza è una condizione essenziale per poter esercitare la professione nello Stato membro ospitante. Questa prova può anche comprendere la conoscenza della deontologia applicabile alle attività in questione nello Stato membro ospitante. Le modalità della prova attitudinale sono determinate dalle autorità competenti di detto Stato membro nel rispetto delle norme del diritto comunitario.
Le autorità competenti dello Stato membro ospitante stabiliscono lo status, in detto Stato membro, del richiedente che desidera prepararsi per sostenere la prova attitudinale in tale Stato».
- L’art. 3, primo comma, lett. a), della direttiva 89/48 dispone quanto segue:
«Quando nello Stato membro ospitante l’accesso o l’esercizio di una professione regolamentata è subordinato al possesso di un diploma, l’autorità competente non può rifiutare ad un cittadino di un altro Stato membro, per mancanza di qualifiche, l’accesso a/o l’esercizio di tale professione, alle stesse condizioni che vengono applicate ai propri cittadini:
- a) se il richiedente possiede il diploma che è prescritto in un altro Stato membro per l’accesso o l’esercizio di questa stessa professione sul suo territorio, e che è stato ottenuto in un altro Stato membro (…)».
- L’art. 4 della direttiva 89/48 autorizza lo Stato membro ospitante a subordinare l’accesso ad una professione regolamentata a talune condizioni. Pertanto, ai sensi del n. 1, lett. b), di questa disposizione, l’art. 3 della detta direttiva non osta a che lo Stato membro ospitante esiga dal richiedente che «compia un tirocinio di adattamento, per un periodo massimo di tre anni, o si sottoponga a una prova attitudinale».
- L’art. 4, n. 1, lett. b), secondo comma, della direttiva 89/48 stabilisce inoltre che, «[i]n deroga a tale principio, lo Stato ospitante può prescrivere un tirocinio di adattamento o una prova attitudinale se si tratta di professioni il cui esercizio richiede una conoscenza precisa del diritto nazionale e nelle quali la conoscenza e/o l’assistenza per quanto riguarda il diritto nazionale costituisce un elemento essenziale e costante dell’attività».
- Il 16 febbraio 1998 il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato la direttiva 98/5/CE volta a facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello in cui è stata acquistata la qualifica (GU L 77, pag. 36).
La normativa nazionale
Le disposizioni di base relative alla professione di «avvocato»
- Le disposizioni essenziali riguardanti l’accesso alla professione di avvocato e l’esercizio di quest’ultima in Italia sono contenute nel regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, recante il titolo «Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore» (GURI n. 281 del 5 dicembre 1933, pag. 5521; in prosieguo: il «decreto legge n. 1578/33»). (Lo status di procuratore legale è stato soppresso in seguito alla legge 27 febbraio 1997, n. 27).
- Ai sensi dell’art. 17, primo comma, punti 1 e 4-6, del decreto legge n. 1578/33, per l’iscrizione all’albo degli avvocati è necessario:
– essere cittadino italiano,
– essere in possesso della laurea in giurisprudenza conferita o confermata da un’università italiana;
– avere compiuto un periodo di pratica, frequentando lo studio di un «avvocato» ed assistendo alle udienze civili e penali per almeno due anni consecutivi, posteriormente alla laurea, ovvero avere esercitato, per lo stesso periodo di tempo, il patrocinio dinanzi ai tribunali, e
– aver superato l’esame d’idoneità all’esercizio della professione.
- Si deve presumere che il requisito di cittadinanza che risulta da questa disposizione sia stato abrogato, per i cittadini comunitari, dalla legge 22 febbraio 1994, n. 146, avente ad oggetto «Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europea, legge comunitaria 1993» (Supplemento ordinario n. 39 alla GURI n. 52 del 4 marzo 1994), ma il testo della detta disposizione non è stato modificato.
- Il periodo di pratica è disciplinato dall’art. 8 del decreto legge n. 1578/33. I laureati in giurisprudenza che svolgono questo periodo di pratica (in prosieguo: i «praticanti») sono iscritti in un registro speciale tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati presso il tribunale nel cui circondario hanno la residenza. Essi sono sottoposti al potere disciplinare di questo Consiglio.
- In forza dell’art. 17, secondo comma, del decreto legge n. 1578/33, per l’iscrizione nel registro dei praticanti è necessario anche essere in possesso della laurea in giurisprudenza conferita o confermata in un’università italiana.
- Ai sensi dell’art. 8 del decreto legge n. 1578/33, i praticanti, dopo un anno dall’iscrizione nel registro, sono ammessi, entro certi limiti e «per un periodo non superiore a sei anni», ad esercitare il patrocinio davanti ai tribunali del distretto nel quale è compreso l’Ordine interessato. In materia penale, essi possono essere nominati difensori d’ufficio, esercitare le funzioni di pubblico ministero e proporre dichiarazione d’impugnazione sia come difensori sia come rappresentanti del pubblico ministero. Un anno dopo essere stati ammessi all’esercizio di quest’attività presso i tribunali, i praticanti sono denominati «praticanti patrocinanti».
Le norme di recepimento delle direttive 89/48 e 98/5
- Il decreto legislativo 27 gennaio 1992, n. 115 (GURI n. 40 del 18 febbraio 1992, pag. 6; in prosieguo: il «decreto legislativo n. 115/92»), è inteso a dare attuazione alla direttiva 89/48.
- L’art. 1 di questo decreto legislativo, intitolato «Riconoscimento dei titoli di formazione professionale acquisiti nella Comunità europea», recita:
«1. Alle condizioni stabilite dalle disposizioni del presente decreto, sono riconosciuti in Italia i titoli rilasciati da un paese membro della Comunità europea attestanti una formazione professionale al cui possesso la legislazione del medesimo Stato subordina l’esercizio di una professione (…).
- Il riconoscimento è concesso a favore del cittadino comunitario ai fini dell’esercizio in Italia, come lavoratore autonomo o dipendente, della professione corrispondente cui è abilitato nel paese che ha rilasciato i titoli di cui al precedente comma.
- I titoli sono ammessi al riconoscimento se includono l’attestazione che il richiedente ha seguito con successo un ciclo di studi post-secondari di durata minima di tre anni (…) in un’università o in un istituto di istruzione superiore o in altro istituto dello stesso livello di formazione».
- L’art. 2 del decreto legislativo n. 115/92 dispone:
«Ai fini del presente decreto si considerano professioni:
- a) le attività per il cui esercizio è richiesta l’iscrizione in albi, registri ed elenchi, tenuti da amministrazioni o enti pubblici, se la iscrizione è subordinata al possesso di una formazione professionale rispondente al requisito di cui al comma 3 dell’articolo 1;
(…)
- c) le attività esercitate con l’impiego di un titolo professionale il cui uso è riservato a chi possiede una formazione professionale rispondente al requisito di cui al comma 3 dell’articolo 1».
- Ai sensi dell’art. 5, n. 1, del decreto legislativo n. 115/92:
«La formazione professionale attestata dai titoli oggetto di riconoscimento rispondenti ai requisiti di cui all’articolo 1, comma 3, o all’articolo 4 del presente decreto può consistere:
- a) nello svolgimento con profitto di un ciclo di studi post-secondari;
- b) in un tirocinio professionale effettuato sotto la guida di un istruttore e sanzionato da un esame;
- c) in un periodo di attività professionale pratica sotto la guida di un professionista qualificato (…)».
- L’art. 6, secondo comma, del decreto legislativo n. 115/92 stabilisce:
«Il riconoscimento è subordinato al superamento di una prova attitudinale se riguarda le professioni (…) di avvocato (…)».
- Ai sensi dell’art. 8, nn. 1 e 2, del decreto legislativo n. 115/92:
«1. La prova attitudinale consiste in un esame volto ad accertare le conoscenze professionali e deontologiche e a valutare la capacità all’esercizio della professione, tenendo conto che il richiedente il riconoscimento è un professionista qualificato nel Paese di origine o di provenienza.
- Le materie su cui svolgere l’esame devono essere scelte in relazione alla loro importanza essenziale per l’esercizio della professione».
- L’art. 9 del decreto legislativo n. 115/92 prevede:
«Con decreti del Ministro competente ai sensi dell’articolo 11, di concerto con il Ministro per il Coordinamento delle politiche comunitarie e con il Ministro delle Università e della Ricerca scientifica e tecnologica, sentito il Consiglio di Stato, sono emanate disposizioni e direttive generali per l’applicazione degli articoli 5, 6, 7 e 8, con riferimento alle singole professioni e alle relative formazioni professionali».
- Per quanto riguarda le professioni giuridiche, l’allegato A del decreto legislativo n. 115/92 stabilisce che il riconoscimento del titolo di avvocato è affidato al Ministero di Grazia e Giustizia.
- La procedura di riconoscimento è disciplinata dall’art. 12 del decreto legislativo n. 115/92, secondo cui la domanda di riconoscimento, corredata della documentazione relativa ai titoli da riconoscere, deve essere presentata al Ministro competente, il quale provvede con decreto da emettersi nel termine di quattro mesi dalla presentazione della domanda.
- Il decreto legislativo 2 febbraio 2001, n. 96 (Supplemento ordinario alla GURI n. 79 del 4 aprile 2001) ha dato attuazione alla direttiva 98/5. Le disposizioni di questo decreto non disciplinano lo status dei praticanti e dei praticanti-patrocinanti.
Causa principale e questione pregiudiziale
- La sig.ra Morgenbesser, cittadina francese residente in Italia, ha presentato, in data 27 ottobre 1999, al Consiglio dell’Ordine di Genova una domanda d’iscrizione al registro dei praticanti. Essa ha fatto valere a tal fine un diploma di «maîtrise en droit» ottenuto in Francia nel 1996. La stessa, dopo aver lavorato per otto mesi come giurista in uno studio legale parigino, nell’aprile 1998 aveva iniziato a collaborare con uno studio di avvocati iscritti all’Albo di Genova dove continuava ad esercitare alla data dell’udienza dinanzi alla Corte.
- Il 4 novembre 1999 la sua domanda è stata respinta dal Consiglio dell’Ordine di Genova, il quale ha fatto valere l’art. 17, primo comma, n. 4, del decreto legge n. 1578/33, che subordina l’iscrizione al registro dei praticanti al possesso della laurea in giurisprudenza conferita o confermata in un’università italiana.
- La sig.ra Morgenbesser ha presentato ricorso contro questa decisione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense che, con decisione 12 maggio 2000, lo ha respinto con la motivazione che la richiedente non era abilitata in Francia all’esercizio della professione di avvocato e non era in possesso del titolo professionale necessario per conseguire l’iscrizione nel registro dei praticanti in Italia.
- La sig.ra Morgenbesser ha successivamente presentato all’Università degli Studi di Genova una domanda di riconoscimento della sua «maîtrise en droit». Il Consiglio della Facoltà di Giurisprudenza di questa università ha subordinato tale riconoscimento alla frequenza di un corso abbreviato di due anni, al superamento di tredici esami e alla redazione di una tesi di laurea.
- La sig.ra Morgenbesser ha presentato ricorso contro quest’ultima decisione dinanzi al Tribunale amministrativo regionale della Liguria, la cui sentenza 5 dicembre 2001, con cui tale ricorso veniva accolto, è stata impugnata dinanzi al Consiglio di Stato.
- Nel frattempo la sig.ra Morgenbesser ha presentato ricorso per cassazione contro la decisione del Consiglio Nazionale Forense del 12 maggio 2000.
- Nell’ambito di questo ricorso, la Corte suprema di cassazione ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se, indipendentemente dal riconoscimento e dalla convalida, un titolo di studio, conseguito da un cittadino comunitario in un Paese della Comunità (nella specie, la Francia), possa, ai fini [dell’iscrizione nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato] automaticamente essere fatto valere in un altro Paese (nella specie l’Italia), e ciò alla stregua della norme del Trattato CE (…) in tema di diritto di stabilimento e di circolazione di servizi (artt. 10 CE, 12 CE, 14 CE, 39 CE e 43 CE […]), nonché dell’art. 149 CE […]».
Sulla questione pregiudiziale
- Dall’ordinanza di rinvio risulta che gli artt. 10 CE, 12 CE, 14 CE, 39 CE, 43 CE e 149 CE sono menzionati nella questione pregiudiziale solo perché sono stati fatti valere dalla sig.ra Morgenbesser.
- Risulta tuttavia da quest’ordinanza che la questione posta dalla Corte suprema di cassazione mira essenzialmente ad accertare se il diritto comunitario si opponga al rifiuto delle autorità di uno Stato membro d’iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessaria per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza ottenuta in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita o confermata in un’università del primo Stato.
- In base alla sua stessa formulazione, tale questione è posta «indipendentemente dal riconoscimento e dalla convalida». Infatti, la domanda di riconoscimento del diploma di «maîtrise en droit» ottenuto in Francia dalla sig.ra Morgenbesser costituisce oggetto di un’altra controversia, pendente dinanzi al Consiglio di Stato (v. punti 28 e 29 della presente sentenza).
Osservazioni presentate alla Corte
- La sig.ra Morgenbesser ritiene che l’attività di praticante e più specificamente quella di praticante-patrocinante rientrino nella nozione di «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48 dato che, da un lato, queste attività comprenderebbero la gestione autonoma delle cause pendenti, la consulenza ai clienti e, in taluni casi, la rappresentanza e difesa di questi ultimi e, dall’altro, sarebbero applicabili le norme professionali sull’avvocatura.
- Il requisito di un previo riconoscimento della laurea da parte di un’università italiana previsto all’art. 17, primo comma, punto 4, del decreto legge n. 1578/33 violerebbe la direttiva 89/48. Quest’ultima consentirebbe di avvalersi di un diploma conseguito in uno Stato membro per l’esercizio di una professione in un altro Stato membro, poiché i diplomi che soddisfano le condizioni poste da questa direttiva sarebbero automaticamente equivalenti.
- Per il caso di non applicabilità della direttiva 89/48, la sig.ra Morgenbesser ritiene, richiamando a tale riguardo la sentenza 8 luglio 1999, causa C-234/97, Fernández de Bobadilla (Racc. pag. I-4773), che l’art. 43 CE richieda che l’autorità competente a trattare domande relative all’accesso alla professione, nella fattispecie il Consiglio dell’Ordine di Genova, proceda alla valutazione e all’esame comparativo delle conoscenze del richiedente basandosi esclusivamente sul suo diploma di «maîtrise en droit».
- Il Consiglio dell’Ordine di Genova sostiene che i praticanti non esercitano né una «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48 né un’«attività» ai sensi dell’art. 43 CE e seguenti, ma si trovano in un semplice rapporto di formazione.
- Il governo danese ritiene che la direttiva 89/48 non si applichi alla fattispecie di cui alla causa principale, poiché la formazione necessaria per l’accesso alla professione non sarebbe stata completata. I principi sanciti dalla Corte nella sentenza 7 maggio 1991, causa C-340/89, Vlassopoulou (Racc. pag. I-2357), richiederebbero non un riconoscimento automatico del diploma estero, ma solo un esame comparativo delle conoscenze e delle qualifiche attestate dal diploma ottenuto in un altro Stato membro. Tuttavia, un periodo di tirocinio compiuto in un altro Stato membro potrebbe essere riconosciuto in forza dell’art. 5 della direttiva 89/48.
- Il governo italiano fa valere che la causa principale riguarda il riconoscimento di titoli accademici, che dovrebbe essere distinto dal riconoscimento di titoli professionali.
- Secondo la Commissione, solo le attività che sono abitualmente svolte in maniera duratura e definitiva possono essere considerate come una «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48. La Commissione dubita che l’attività di praticante di cui trattasi nella causa principale possa rientrare in questa nozione.
- Non trovando applicazione la direttiva 89/48, i principi generali d’interpretazione dell’art. 43 CE, elaborati nelle sentenze Vlassopoulou, cit., e 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard (Racc. pag. I-4165), potrebbero opporsi a una normativa nazionale che subordina l’iscrizione nel registro dei praticanti al riconoscimento, da parte di un’università dello Stato membro in cui il richiedente intende effettuare questo periodo di pratica, della laurea in giurisprudenza rilasciata in un altro Stato membro, allorché questo riconoscimento richiede la frequenza di un corso abbreviato, il superamento di tredici esami e la redazione di una tesi finale di laurea. Per il resto, la sig.ra Morgenbesser non avrebbe avuto la possibilità di far valere che, nel momento in cui ha presentato la sua domanda d’iscrizione nel registro dei praticanti, aveva già lavorato a tempo pieno in studi legali italiani.
Giudizio della Corte
- Per risolvere la questione pregiudiziale occorre innanzi tutto esaminare se un soggetto quale la ricorrente nella causa principale possa beneficiare delle disposizioni della direttiva 98/5 relativa alla professione di avvocato o di quelle della direttiva 89/48 relativa al reciproco riconoscimento di diplomi. Se queste direttive non sono applicabili, occorrerà poi esaminare se gli artt. 39 CE o 43 CE, come interpretati dalla Corte, in particolare nella citata sentenza Vlassopoulou, possano essere fatti valere in una situazione quale quella di cui alla causa principale.
- Occorre precisare, in via preliminare, in considerazione della formulazione della questione posta, che né la direttiva 98/5, né la direttiva 89/48, né gli artt. 39 CE e 43 CE richiedono che il riconoscimento di un diploma sia puramente «automatico».
- La direttiva 98/5 riguarda solo l’avvocato completamente qualificato come tale nel suo Stato membro di origine di modo che essa non si applica a coloro che non hanno ancora acquisito la qualificazione professionale necessaria per esercitare la professione di avvocato. Essa quindi non si applica in un caso quale quello di cui alla fattispecie della causa principale.
- Per quanto riguarda la direttiva 89/48, essa si applica, ai sensi dell’art. 2, a qualunque cittadino di uno Stato membro che intenda esercitare come lavoratore autonomo o subordinato una «professione regolamentata» in uno Stato membro ospitante.
- La sig.ra Morgenbesser sostiene ch’essa non rivendica l’accesso alla professione di avvocato, in quanto tale, ma, in questa fase, l’accesso a quella di praticante. A suo parere, l’attività del praticante rientra nella nozione di «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48. Poiché la sola condizione preliminare per accedere a questa professione è la laurea in giurisprudenza, essa potrebbe far valere la sua «maîtrise en droit» per ottenere tale accesso. Un numero non trascurabile di praticanti e di praticanti-patrocinanti che non hanno superato l’esame finale continuerebbero ad esercitare la loro attività legale senza tuttavia essere cancellati dal registro dei praticanti.
- Secondo la definizione che risulta all’art. 1, lett. c), della direttiva 89/48, una professione regolamentata è «l’attività o l’insieme delle attività professionali regolamentate che costituiscono questa professione in uno Stato membro» e, secondo la definizione che figura in tale articolo, lett. d), l’attività professionale regolamentata è «un’attività professionale per la quale l’accesso alla medesima o l’esercizio o una delle modalità di esercizio dell’attività in uno Stato membro siano subordinati, direttamente o indirettamente mediante disposizioni legislative regolamentari o amministrative al possesso di un diploma».
- Una professione deve quindi essere considerata regolamentata, ai sensi della direttiva 89/48, allorché l’accesso all’attività professionale di cui trattasi o l’esercizio della medesima è disciplinato da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative che istituiscono un regime che produce l’effetto di riservare espressamente tale attività professionale alle persone che soddisfano talune condizioni e di vietarne l’accesso a quelle che non le soddisfano (v. sentenze 1° febbraio 1996, causa C-164/94, Aranitis, Racc. pag. I-135, punto 19, e Fernández de Bobadilla, cit., punto 17).
- L’accesso alle attività di praticante e di praticante-patrocinante di cui trattasi nella causa principale, nonché l’esercizio delle medesime sono disciplinati da disposizioni legislative che istituiscono un regime che riserva tali attività a coloro che soddisfano talune condizioni e ne vieta l’accesso a coloro che non le soddisfano.
- Tuttavia, dalle dette disposizioni deriva che l’esercizio di queste attività è concepito nel senso che costituisce la parte pratica della formazione necessaria per accedere alla professione di avvocato. Dopo sei anni, il praticante-patrocinante che non supera l’esame previsto all’art. 17, primo comma, punto 6, del decreto legge n. 1578/33 non sarà più autorizzato, secondo i termini di queste disposizioni, a continuare l’attività che esercitava in tale qualità.
- In tale contesto, l’attività di praticante-patrocinante non può essere qualificata come «professione regolamentata» ai sensi della direttiva 89/48, separabile da quella della professione di avvocato.
- Il fatto che un numero non trascurabile di praticanti-patrocinanti, che non hanno superato l’esame finale, continui ad esercitare attività legali e non sia cancellato dal registro dei praticanti, non può avere la conseguenza di qualificare le attività di praticante o di patrocinante, considerate isolatamente, come professione regolamentata ai sensi della direttiva 89/48.
- Risulta inoltre che la sig.ra Morgenbesser, non avendo ottenuto in Francia il «certificat d’aptitude à la profession d’avocat» (CAPA) (certificato d’idoneità alla professione di avvocato), non possiede i titoli professionali per accedere allo status di «stagiaire» (praticante) nell’ambito della professione di avvocato in questo Stato membro. In tale contesto, la «maîtrise en droit» di cui dispone non costituisce, di per sé sola, un «diploma, certificato o altro titolo» ai sensi dell’art. 1, lett. a), della direttiva 89/48.
- Ne deriva che la sig.ra Morgenbesser non può avvalersi della direttiva 89/48.
- In considerazione di quanto precede, occorre esaminare se gli artt. 39 CE e 43 CE trovino applicazione nella fattispecie di cui alla causa principale. Solo nel caso in cui queste disposizioni non fossero applicabili sarebbe necessario esaminare le altre disposizioni del Trattato menzionate dal giudice del rinvio nella sua questione.
- Secondo la giurisprudenza, i cui principi sono stati enunciati nella citata sentenza Vlassopoulou, le autorità di uno Stato membro, quando esaminano la domanda di un cittadino di un altro Stato membro diretta a ottenere l’autorizzazione all’esercizio di una professione regolamentata, debbono prendere in considerazione la qualificazione professionale dell’interessato procedendo ad un raffronto tra, da un lato, la qualificazione attestata dai suoi diplomi, certificati e altri titoli nonché dalla sua esperienza professionale nel settore e, dall’altro, la qualificazione professionale richiesta dalla normativa nazionale per l’esercizio della professione corrispondente (v., da ultimo, sentenza 16 maggio 2002, causa C-232/99, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-4235, punto 21).
- Tale obbligo si estende a tutti i diplomi, certificati ed altri titoli, nonché all’esperienza acquisita dall’interessato nel settore, indipendentemente dal fatto che siano stati conseguiti in uno Stato membro o in un paese terzo, e non cessa di esistere in conseguenza dell’adozione di direttive relative al reciproco riconoscimento dei diplomi (v. sentenze 14 settembre 2000, causa C-238/98, Hocsman, Racc. pag. I-6623, punti 23 e 31, e Commissione/Spagna, cit., punto 22).
- Secondo il Consiglio dell’Ordine di Genova, l’attività di praticante costituisce un’attività di formazione, alla quale non si applicano le disposizioni degli artt. 39 CE e 43 CE.
- Tuttavia, il periodo di pratica di cui trattasi nella causa principale comporta l’esercizio di attività, normalmente retribuite o dal cliente o dallo studio dove il praticante lavora, al fine di accedere a una professione regolamentata alla quale si applica l’art. 43 CE. Nella misura in cui la retribuzione del praticante assume la forma di un salario, può trovare applicazione anche l’art. 39 CE.
- Sia l’art. 39 CE sia l’art. 43 CE possono quindi trovare applicazione a una situazione quale quella di cui alla causa principale. Tuttavia, l’analisi non differisce a seconda che venga fatta valere la libera circolazione dei lavoratori o la libertà di stabilimento per opporsi al rifiuto, da parte del Consiglio dell’Ordine di Genova che opera in qualità di autorità competente per l’iscrizione nel registro dei praticanti, di prendere in considerazione, ai fini dell’iscrizione, la laurea in giurisprudenza ottenuta in un altro Stato membro e l’esperienza professionale acquisita.
- Come la Corte ha già precisato, l’esercizio del diritto di stabilimento viene ostacolato se le norme nazionali fanno astrazione dalle conoscenze e dalle qualifiche già acquisite dall’interessato in un altro Stato membro, di modo che le autorità nazionali competenti devono valutare se tali conoscenze siano valide ai fini dell’accertamento del possesso delle conoscenze mancanti (v. citt. sentenze Vlassopoulou, punti 15 e 20, e Fernández de Bobadilla, punto 33).
- In tale contesto, contrariamente a quanto sostiene il governo italiano, non si tratta, in un caso quale quello di cui alla fattispecie della causa principale, di una semplice questione di riconoscimento di titoli accademici.
- E’ vero che il riconoscimento, per fini accademici e civili, dell’equivalenza di un diploma ottenuto in un primo Stato membro può essere pertinente, e persino determinante, per l’iscrizione all’albo degli avvocati di un secondo Stato membro (v., a tale riguardo, sentenza 28 aprile 1977, causa 71/76, Thieffry, Racc. pag. 765).
- Non ne deriva tuttavia che, ai fini dei controlli che l’autorità competente dello Stato membro ospitante deve effettuare in circostanze quali quelle della fattispecie di cui alla causa principale, è necessario verificare l’equivalenza accademica del diploma di cui si avvale l’interessato rispetto al diploma normalmente richiesto dai cittadini di tale Stato.
- La presa in considerazione del diploma dell’interessato, quale la «maîtrise en droit» rilasciata da un’università francese, deve quindi essere effettuata nell’ambito della valutazione dell’insieme della formazione, accademica e professionale, che quest’ultimo può far valere.
- Ne deriva che spetta all’autorità competente verificare, conformemente ai principi sanciti dalla Corte nelle citate sentenze Vlassopoulou e Fernández de Bobadilla, se, e in quale misura, si debba ritenere che le conoscenze attestate dal diploma rilasciato in un altro Stato membro e le qualifiche o l’esperienza professionale ottenute in quest’ultimo, nonché l’esperienza ottenuta nello Stato membro in cui il candidato chiede di essere iscritto, soddisfino, anche parzialmente, le condizioni richieste per accedere all’attività di cui trattasi.
- Questa procedura di valutazione deve consentire alle autorità dello Stato membro ospitante di assicurarsi obiettivamente che il diploma straniero attesti, da parte del suo titolare, il possesso di conoscenze e di qualifiche, se non identiche, quanto meno equivalenti a quelle attestate dal diploma nazionale. Tale valutazione dell’equivalenza del diploma straniero deve effettuarsi esclusivamente in considerazione del livello delle conoscenze e delle qualifiche che questo diploma, tenuto conto della natura e della durata degli studi e della formazione pratica di cui attesta il compimento, consente di presumere in possesso del titolare (v. sentenze 15 ottobre 1987, causa 222/86, Heylens e a., Racc. pag. 4097, punto 13, e Vlassopoulou, cit., punto 17).
- Nel contesto di questo esame uno Stato membro può tuttavia prendere in considerazione differenze obiettive relative tanto al contesto giuridico della professione considerata nello Stato membro di provenienza quanto al suo campo di attività. Nel caso della professione di avvocato, lo Stato membro ha pertanto il diritto di procedere ad un esame comparativo dei diplomi tenendo conto delle differenze rilevate tra gli ordinamenti giudiziari nazionali interessati (sentenza Vlassopoulou, cit., punto 18).
- Se a seguito di questo esame comparativo dei diplomi si arriva alla constatazione che le conoscenze e le qualifiche attestate dal diploma straniero corrispondono a quelle richieste dalle disposizioni nazionali, lo Stato membro è tenuto ad ammettere che questo diploma soddisfa le condizioni fissate da dette disposizioni. Se, invece, a seguito di tale confronto emerge una corrispondenza solo parziale tra dette conoscenze e qualifiche, lo Stato membro ospitante ha il diritto di pretendere che l’interessato dimostri di aver maturato le conoscenze e le qualifiche mancanti (sentenza Vlassopoulou, cit., punto 19).
- A questo proposito, spetta alle autorità nazionali competenti valutare se le conoscenze acquisite nello Stato membro ospitante nel contesto di un ciclo di studi ovvero anche di un’esperienza pratica siano valide ai fini dell’accertamento del possesso delle conoscenze mancanti (sentenza Vlassopoulou, cit., punto 20).
- In considerazione di quanto precede, occorre risolvere la questione posta dal giudice nazionale nel senso che il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un’università del primo Stato.
Sulle spese
- Le spese sostenute dai governi italiano e danese nonché dalla Commissione, che hanno presentato osservazioni alla Corte, non possono dar luogo a rifusione. Nei confronti delle parti nella causa principale il presente procedimento costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese.
Per questi motivi,
LA CORTE (Quinta Sezione),
pronunciandosi sulla questione sottopostale dalla Corte suprema di cassazione con ordinanza 19 aprile 2001, dichiara:
Il diritto comunitario si oppone al rifiuto da parte delle autorità di uno Stato membro di iscrivere, nel registro di coloro che effettuano il periodo di pratica necessario per essere ammessi alla professione di avvocato, il titolare di una laurea in giurisprudenza conseguita in un altro Stato membro per il solo motivo che non si tratta di una laurea in giurisprudenza conferita, confermata o riconosciuta come equivalente da un’università del primo Stato.
Edward
La Pergola
von Bahr
Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 13 novembre 2003.
Il cancelliere
Il presidente
- Grass
- Skouris
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